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Thanks God I’m British!

Avere passaporto britannico vuol dire poter ricevere una wild card per il main draw di Wimbledon senza essere una giovane promessa. E assicurarsi un bel montepremi. Ma semi-sconosciuti giocatori inglesi sono anche andati vicini a compiere grandi imprese, come Chris Bailey che nel 1993 fu protagonista di una vicenda folle contro Goran Ivanisevic.

Federico Ferrero
scritto nel giugno 2018, ripubblicato il 26 giugno 2021

«Quella partita, per me, era cominciata due giorni prima. Avevo battuto Patrick McEnroe al primo turno e in conferenza stampa mi avevano chiesto se mi sarebbe piaciuto giocare contro Ivanisevic sul Centrale, visto 
che lui aveva perso in finale l’anno prima contro Agassi ed era una delle stelle del torneo. Dissi di sì, certo, che sarebbe stato bellissimo, ma che sicuramente il Comitato non avrebbe concesso il privilegio di quel campo a una wild card sconosciuta come me». Invece.

Chris Bailey ha 50 anni, dopo il tennis è andato a stare dall’altra parte del mondo e conosce nel profondo,
come pochi altri, il significato del termine quasi. Quella distanza a volte impercettibile ma inamovibile tra il no e il sì, il niente e il tutto. Nel 1993 aveva 25 anni, un 
gran servizio ricavato dal metro e novantasei, due volée sicure di scuola british che non sbagliava mai e una classifica (263) sofferente come le sue ginocchia, operate a più riprese e mai guarite del tutto. Il classico inglese
 da wild card a Wimbledon: quell’anno, tempi disgraziati per il tennis UK, l’unico professionista non bisognoso di invito ufficiale per giocare nel Tempio era Jeremy Bates. Gli altri, li sentivi nominare due giorni, quelli del primo turno dei Championships, e poi più: Foster, Matheson, Sapsford, Castle, Cole, Beecher, Wilkinson. Nessuno lo sapeva, ma la carestia sarebbe stata interrotta di lì a poco da Tim Henman, dall’acquisto canadese Greg Rusedski e (più in là, e molto più generosamente) da sir Andy Murray.

PLAY IT BOX
"Cosa avrei potuto fare di diverso? Seconda di servizio: nastro, buona. Ecco, forse dovevo fermare il gioco e aspettare che il pubblico smettesse di urlare. Erano tutti convinti fosse doppio fallo. Invece lui alzò subito la palla: ace" Chris Bailey

Il drammatico match tra Ivanisevic e Bailey a Wimbledon 1993

Chris Bailey, wild card per il sesto anno consecutivo, aveva ripagato cotanta generosità vincendo due partite, la terza quell’anno, al primo turno, contro il McEnroe giocabile. «Il giorno dopo ricevetti una telefonata: mi dissero che l’indomani avrei giocato il terzo incontro sul Campo Centrale. Non ci avevo mai messo i piedi, così aspettai la fine delle partite per chiedere il permesso 
di camminarci un po’ su, almeno per rendermi conto
 di come si stesse, dell’atmosfera. Erano le sette di sera, passeggiavo intorno al rettangolo, guardando in su e in giù. C’era ancora qualche spettatore ritardatario, alcuni mi riconobbero e mi gridarono un good luck per il giorno dopo. Sono sicuro che quei pochi minuti mi aiutarono. Quella notte credo di aver dormito poco o nulla».
 Goran Ivanisevic era una scheggia impazzita: semifinale nel 1990, secondo turno nel 1991 contro un maestro di tennis di Warrington, tale Nick Brown, numero 591 del mondo; finale nel 1992, persa contro se stesso e Andre Agassi, col servizio atomico che si inceppò sul 4-5 del quinto set. Uno così, non poteva che vincere il suo unico Slam dopo altre due finali e ormai fuori tempo, da wild card. Sarebbe capitato otto anni più tardi. Il croato dalla battuta illegale aveva già rischiato di perdere al primo turno contro un picchiatore aggressivo, lo statunitense Jonathan Stark, e sembrava pronto a regalare gloria a qualche altra oscura meteora britannica. Bailey, per esempio. Che ricevette una visita speciale, quel 23 di giugno: «Appena prima che entrassimo, ci avvertirono che erano arrivati alcuni membri della famiglia reale nel box e quindi, che avremmo dovuto fare una giravolta nei pressi della riga del servizio e inchinarci». Ora non si fa più, dice lui, e lo considera un peccato.

Chris Bailey giocava un tennis perfetto per i prati. Sempre avanti, sempre aggressivo, non veloce ma con le braccia lunghe per coprire la rete. Ivanisevic non aveva proprio voglia di perdere, quel giorno, ma pian piano sembrava potersi rassegnare: il favorito perse il primo set 5-7, vinse il secondo al tie-break e perse il terzo ancora al tie-break. Nel quarto, in ritardo 0-2 e 15-30,
un piccione fece un’improvvisata nella metà campo dell’inglese e lo distrasse. Nel gioco precedente, Bailey aveva travolto il giudice del net franandogli addosso, dopo una rincorsa inutile. Risate, scherzi col pubblico, tensione staccata per qualche istante. Ivanisevic, che
 era folle ma non pollo, ne approfittò per riprendere 
il filo e trascinare tutto al quinto. «Sarebbe facile
 parlare del pubblico, del tifo. Ma se devo scegliere una cosa di quel match, per me, è il primo game. Fino alla fine del primo turno di battuta non avevo guardato il pubblico, poi mi sedetti al cambio di campo (allora usava così, dopo il primo gioco, ndA) e lo feci. Ricordo che sorrisi al mio coach e, guardandomi intorno, mi sentii immediatamente a casa».

Chris Bailey sul Centre Court. Sullo sfondo, il beffardo punteggio di quella partita.

Non sapeva, Bailey, dello sfratto con beffa dell’ultimo secondo, una vicenda da psichiatra. Sul 5-6 e 30 pari del quinto set, indovinò risposta nei piedi e passante di rovescio. Un punto da urlo, match point. La gente del Centrale aveva perso la testa dall’inizio del set, e calpestava a più riprese la regola aurea del tennis
 a Wimbledon, la compostezza del tifo. Gridavano apertamente invocando il doppio fallo dell’altro. Ogni punto dell’inglese era una scusa per dieci secondi di delirio. Ivanisevic pareva volerli accontentare, nella loro fame pluridecennale di successi, invece. «Invece non so, quante volte ho pensato a quel punto. Cosa avrei potuto fare di diverso? Seconda di servizio: nastro, buona. Ecco, forse dovevo fermare il gioco e aspettare che il pubblico smettesse di urlare. Erano tutti convinti fosse doppio fallo. Invece lui alzò subito la palla: ace. Quando la vidi passare alla mia destra, mi misi a guardare a mezz’aria, poi sorrisi. Non ci potevo credere. Come può venire in mente a qualcuno, sotto di un match point, di tirare un ace di seconda dopo aver già preso il nastro?» Lo stesso Ivanisevic, in conferenza stampa, avrebbe confermato la non-coscienza di quel gesto: «In realtà non pensavo a niente che riguardasse la partita, anzi, a un certo punto mi sono visto in aeroporto a fare il check-in e a caricare il bagaglio. Ormai pensavo sarebbe finita così, col volo di ritorno a casa». Bailey avrebbe perso il game, il set, il match. Al tramonto, alle 20:40, dopo tre ore e mezza di partita, 9-7 al quinto set. Lo scatto che precede la stretta di mano lo coglie con le mani ai fianchi, tra l’incredulo 
e lo scorato, perché non si può vincere una partita così. Ma soprattutto, non si può perdere una partita così. «Cosa posso dire. Goran era Goran. Mi chiedo cosa sarebbe successo se avesse fatto doppio fallo, ma non sono mai stato il tipo di persona che vive sul come sarebbe andata se. Però devo ammettere che mi sarebbe piaciuto vedere come sarebbe andata a finire, senza
 quel colpo. Comunque la mia vita, dopo quel giorno, è cambiata. Mi si sono aperte molte porte, che sarebbero senz’altro rimaste chiuse senza quel match. Ho conosciuto molte persone che sono diventate amiche, ho commentato in tivù per la BBC, ho anche trovato degli sponsor».

E il ricordo di quello, l’ace di seconda sul match point, lo ha già trasmesso in famiglia, senza tabù: «Ho tre figli, sanno tutto della mia carriera. Oltretutto ho il privilegio di essere un membro dell’All England Club
 e, quando posso, torno a casa per guardare insieme a loro i Championships. Vivo in Australia, ho sposato un’australiana e dopo 12 anni di cabina di commento volevo una nuova sfida. Lavoro per un’azienda che si occupa di leasing immobiliare. Vivo a Sydney, che è uno dei posti più belli al mondo». A tennis gioca ancora, salute permettendo, un paio di volte alla settimana. Bonario e accomodante, si scurisce solo quando qualcuno prova a tirargli un ace. Soprattutto di seconda.