The Club: Bola Padel Roma
IL RACCONTO

1994-2024: Trent'anni fa, al Country Club

Federico Ferrero racconta la sua prima volta a Monte-Carlo. Da allora sono passati 30 anni: qualcosa è rimasto uguale, molto è cambiato, ma nel frattempo un suo omonimo ha vinto per due volte il torneo. Di quella esperienza da studente del liceo rimangono mille ricordi, su tutti l'incontro con Gianni Clerici e lo sguardo truce di Horst Skoff.

Federico Ferrero
10 aprile 2024

Appena mi sono seduto sulla tribuna del lato corto del Court des Princes di Monte Carlo è mi è tornato in mente tutto: 1994, seconda liceo classico, aprile, un freddo becco. Le undici del mattino. Nello zaino avevo i panini, la mappa per la stazione temporanea del trenino Ter che fermava a Roquebrune a portata di camminata al circolo ma solo durante il torneo, un ombrello, un paio di riviste di tennis. Il primo giocatore che avevo visto sbucando dalla tribuna era stato Horst Skoff. Palleggiava con David Rikl. Aveva i capelli a spazzola e l'aria da gerarca, di uno che aveva in mente qualcosa di losco da fare. Skoff era davvero un brutto ceffo, nemico giurato del numero uno austriaco Thomas Muster – lui era il numero due – e una volta, in Coppa Davis, vennero quasi alle mani. Aveva una faccia da schiaffi che metà bastava. Sicuramente a intimidire me: ero così vicino al campo che temevo se la potesse prendere con uno spettatore a caso, magari per una palla steccata o un colpo di tosse.

Sono passati trent'anni, oggi. Mercoledì. Il Country Club ha fatto il possibile per restare sempre lui, in cima alla Roccabruna (Roquebrune) hanno aggiustato l'hotel Vista Palace e la "V" è scomparsa ma qui, sulle terrazze, è tutto all'incirca uguale. La sala stampa è sempre in alto, accanto all'entrata dove si assiepano i ragazzini per cercare gli autografi delle superstar; nel 1994, la prima testa di serie era il mio diletto Michael Stich, ma qui non sarebbe mai arrivato neanche in finale. Il torneo lo avrebbe vinto Andrei Medvedev in finale su Sergi Bruguera. A proposito di Bruguera, l'ho appena visto al ristorante seduto al tavolo accanto: barba bianca, tuta, i giovani gli passano accanto e neanche uno lo riconosce. Mi ero comprato il biglietto del mercoledì e facevo quello che io e il mio amico Marco, ai tempi compagno di banco al liceo Govone di Alba e oggi apprezzato giudice civile, chiamavamo "lo zoo". Lo zoo consisteva nel girare il più possibile tutti i campi e scorgere il maggior numero di giocatori: "Ehi, sul campo 9 c'è un esemplare di Novacek!" "Sì ma guarda che ho appena visto passare un Henrik Holm!" Ero l'unico italiano a conoscere la faccia di Connell e Galbraith, soprattutto il secondo, aspetto da impiegato del catasto, gesti (il servizio, poi...) da mezza pippa del circolo. Sarebbe diventato numero uno del mondo l'anno successivo, grazie a rapidità e tocchi bi-bimani da autentico fenomeno.

Nel suo percorso verso il successo a Monte-Carlo 1994, Andrei Medvedev batté anche Jim Courier

Gianni Clerici mi disse di salutargli Alba. "Alba... Cuneo! Il maestro Montevecchi!", si inserì Tommasi.
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Ma quale Montevecchi, Rino: Fenoglio! Beppe Fenoglio!"
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Eh, ho capito, Gianni. Ognuno fa i riferimenti che può" 

Passando accanto alla sala stampa, vidi Rino Tommasi e gli chiesi dove fosse Gianni Clerici. Lui si fermava a parlare con tutti, dal principe al cameriere del bar, sicché mi disse di andare di sopra. Come se si potesse fare liberamente: in realtà, ai tempi, si sfruttava ancora qualche falla del sistema di sicurezza, perché l'addetto al controllo degli accessi mi fece segno che, volendo, potevo passare. Forse aveva malinteso la mia confidenza, o presunta tale, con un accreditato storico del torneo.
Ricordo che riconobbi la voce di Ubaldo Scanagatta in collegamento con una radio, poi scorsi Clerici. Mi sedetti vicino a lui, mi presentai come quel ragazzo di Alba che gli aveva scritto una lettera destinata alla casa-museo di via Torno a Como. Aveva pure pure risposto a quel mezzo sproloquio, dicendomi di provare a fare il giornalista se proprio ci tenevo, perché gli sembrava che avessi "una buona disponibilità" per riuscirci. Non avevo idea di cosa chiedergli, gli domandai di fare "il punto della situazione" e replicò, giustamente: "Sì, d'accordo, ma di quale situazione?". Alla fine, congedandomi, mi disse di salutarmi Alba. "Alba... Cuneo! Il maestro Montevecchi!", si inserì Tommasi. "Ma quale Montevecchi, Rino: Fenoglio! Beppe Fenoglio!" "Eh, ho capito, Gianni. Ognuno fa i riferimenti che può. Comunque, Ferrero, senti: io sono stato per tanto tempo l'unico lettore dei miei articoli. Quindi, non scoraggiarti".

Evidentemente dovevo aver rappresentato tutto il mio pessimismo nel ritenermi davvero in grado di fare del tennis un lavoro, almeno per me. Uscendo dalla sala stampa, raggiunsi il mio amico in piccionaia – l'unico biglietto potabile per il mio, oggi diremmo così, budget – e gli raccontai, con i lucciconi agli occhi, di come fossi riuscito a imbucarmi in mezzo al paradiso dei giornalistennisti e mi fossi goduto una mezz'ora in compagnia di Rino e Gianni. Non avendo prove a sostegno della improba impresa, non riuscii a convincerlo: era sicuro, e lo sarebbe rimasto per un'altra quindicina di anni, che stessi millantando.

L'attuale aspetto del Campo Ranieri III. All'epoca era semplicemente il "centrale" e sul lato corto di fronte alla terrazza c'era una tribunetta con non più di due file. Oggi hanno trovato il modo per ingrandirla

Nel 1994 cerano in tabellone Andrea Gaudenzi e Renzo Furlan. Al terzo turno ci arrivò solo Andrea, battuto da Jim Courier. Mentre scrivo, Jannik Sinner è il giocatore più forte del mondo – di fatto, da fine 2023 – e sta giocando contro un Korda, figlio di Petr Korda, battuto da Skoff in quell'edizione di trent'anni fa. Nel mentre, Gaudenzi ha compiuto 50 anni ed è diventato amministratore delegato dell'Atp. Un Ferrero, per il torneo, è passato: lo ha vinto due volte Juan Carlos, 2002 e 2003. Oggi fa l'allenatore, di Carlos Alcaraz. Quando salgo quegli stessi gradini che portano alle scrivanie dei giornalisti, tocco il pannello coi nomi dei vincitori perché, insomma, lì ci sono pure io.

Horst Skoff, invece, non c'è più. È morto ad Amburgo, un giorno del 2008. Lì per lì parlarono di infarto: aveva solo 39 anni ma era aumentato di peso a dismisura, beveva. Dopodiché, spuntarono notizie su una sua dipendenza da altre sostanze, una festa di eccessi che aveva organizzato con un paio di ragazze, qualche giornale riferì di strane ferite al volto riscontrate in sede di autopsia. Anni dopo, mi sarei trovato al bar dei giocatori in questo stesso torneo, a parlare con l'allora coach di Dominic Thiem, Guenther Bresnik. Toccammo l'argomento Skoff e lui disse che Horst era morto per un attacco di cuore, «se ci si voleva credere». Mi fulminò con un'occhiataccia, come a dire che non fosse sua intenzione dire altro; una volta tanto, vinsi la passione per la cronaca nera che, da sempre, alberga in me al pari delle racchette e tirai dritto sul tennis. Aveva uno sguardo, potrei affermare a mia discolpa per il mancato scoop, che intimoriva più di quello di Skoff.