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INDIAN WELLS

The one that got away... sogna Torino

Tra i candidati per le ATP Finals c'è anche Cameron Norrie, che a inizio anno era n.74 ATP. Ha vinto 44 partite, giocato cinque finali, ma non lo considera nessuno. Lui tira dritto con un coach-amico, scelte impopolari (in Nuova Zelanda qualcuno ce l'ha ancora con lui) e un fisico d'acciaio.

Riccardo Bisti
14 ottobre 2021

Esiste un proverbio secondo cui, in mezzo ai litiganti, poi arriva qualcuno che gode. Chissà se l'hanno detto a Cameron Norrie, che a suon di risultati è incredibilmente entrato nella corsa per le ATP Finals di Torino. Non lo hanno mai preso sul serio, ma la vittoria su Tommy Paul a Indian Wells lo ha proiettato nei quarti, superando il muro dei 2000 punti conquistati nel solo 2021. E ha già vinto 44 partite, sempre più vicino al traguardo dei 50 successi che – tra i connazionali – hanno raggiunto soltanto Tim Henman ed Andy Murray. Da italiani, veder giocare questo 26enne fa un po' male. È mancino come Gianluigi Quinzi e tira il rovescio in modo piuttosto simile. Inevitabile domandarsi se al suo posto potrebbe esserci l'ex GQ tennistico, che qualche mese fa ha scelto di disintossicarsi dal nostro sport. Chi lo guarda senza sciovinismi, invece, non si capacita come faccia a essere tredicesimo nella Race. È stato certamente aiutato da alcune assenze di rilievo, ma non si può spiegare tutto così. Cinque finali ATP non si conquistano per caso. Estoril, Lione, Queen's e San Diego gli sono andate male. Per sua fortuna, ha vinto il suo primo titolo a Los Cabos.

Di lui si parla poco per due motivi: gli manca ancora l'exploit in un grande torneo, e poi l'interesse dei media britannici è fagocitato da Emma Raducanu e (ormai parzialmente) Andy Murray. Lo stesso Murray che lo apprezza molto: quattro anni fa, fu Andy a presentarsi quando lo vide negli spogliatoi del Queen's. Resosi conto della sua timidezza, pensò bene di rompere gli indugi. E qualche mese dopo fu il primo a scrivergli dopo l'esordio deluxe in Coppa Davis, quando Norrie batté Roberto Bautista Agut in trasferta, in cinque set. In quel momento i britannici si sono accorti di lui e hanno iniziato, piano piano, ad apprezzarlo. Erano scottati dal caso di Aljaz Bedene, lo sloveno che aveva scelto di giocare per loro in ottica Davis e Olimpiadi, ma fu bloccato dai regolamenti ITF. Bedene ringraziò e tornò a giocare per la Slovenia. Per inciso, gli è andata malissimo: ha contratto il COVID a metà luglio e da allora è fermo. Non ha potuto giocare le Olimpiadi e ha ripreso ad allenarsi proprio in questi giorni, mentre Norrie sta aumentando i giri del motore per ottenere una clamorosa qualificazione al Masters. L'ultima posizione utile dista oltre 900 punti, ma il BNP Paribas Open sta offrendo una sorpresa dopo l'altra. E chissà che non possano essere maturi i tempi per l'agognato exploit. Cameron ci crede, e a quel punto farebbe ricredere i pochi britannici che lo guardano ancora con sospetto.

ASICS ROMA
«È in grado di giocare 4 ore con la stessa intensità, senza calare mai. Gli altri possono fare altrettanto, ma dopo 2 ore calano. Lui no. E lo può fare tutti i giorni» 
Facundo Lugones

Vincendo a Los Cabos, Cameron Norrie si è aggiudicato il suo primo titolo ATP

La sua è una storia da raccontare. Papà David è scozzese di Glasgow, mamma Helen è gallese di Cardiff. Entrambi microbiologi, si spostarono in Sudafrica, laddove Cameron è nato il 23 agosto 1995, poco dopo la salita al governo di Nelson Mandela. Quando aveva tre anni, un furto in casa convinse i genitori a lasciare il Paese e trasferirsi nella sicura (ma lontana) Nuova Zelanda, laddove Norrie ha iniziato a giocare a otto anni, con una racchetta da squash tagliata. “Da piccolo giocavo anche a rugby, cricket e calcio. Per un periodo ero più bravo a cricket, ma alla fine ho scelto il tennis perché il cricket mi sembrava un po' troppo noioso”. Papà David la ricorda diversamente, e sostiene che il figlio fosse affascinato dagli All Blacks (ma in Nuova Zelanda c'è qualcuno che non lo è?). “Per fortuna ha scelto il tennis, perchè guardare il cricket è come fissare un muro di mattoni”. Da junior è stato numero 10, giocando per la Nuova Zelanda. Nel 2013, tuttavia, si è trasferito a Londra e ha scelto di giocare per la Gran Bretagna. Comodità, strutture e contributi sono la ragione della sua scelta. E la cittadinanza non è stata un problema, vista l'origine dei suoi genitori. “Hanno fatto grandi sacrifici per me, ricordo che da piccolo mia mamma guidava alle 6.15 del mattino per portarmi ad allenarmi. In Gran Bretagna, poi, mi ha aiutato molto James Trotman”.

A un certo punto, tuttavia, ha scelto di cambiare ancora. Lo facevano allenare troppo, dunque per evitare una crisi di rigetto ha scelto la via del college americano. Alla Texas Christian University si è fatto notare, diventando rapidamente il numero 1 nella classifica NCAA. “In quel periodo ho commesso diversi errori, ma per fortuna ho avuto ottimi esempi. Ricordo Devin Bowen e David Roditi: grazie a loro, ho trovato la professionalità di cui avevo bisogno”. Faceva parte del team anche un ragazzo argentino di nome Facundo Lugones, buon tennista e studente ancora migliore. Quando si è laureato stava per entrare nel mondo della finanza, ma Norrie gli ha fatto una proposta indecente: “Voglio diventare professionista: perché non mi accompagni?”. È nata una partnership che va a gonfie vele. “Con lui c'è uno splendido equilibrio tra professionista e amico. Ama il tennis e vuole sempre migliorare, inoltre gli posso dire tutto. È un sollievo avere qualcuno con cui parlare apertamente”. In pochi mesi di professionismo, Norrie si portò a ridosso dei primi 100. I risultati hanno acceso l'entusiasmo. E il progetto si è fatto via via più organizzato.

Cameron Norrie ai tempi dell'università. È lì che ha conosciuto il suo attuale coach Facundo Lugones

Alcune curiosità su Cameron Norrie

“Quando ci siamo conosciuti, la sua vita non era molto strutturata – racconta Lugones – era molto competitivo, ma faceva tutto in modo un po' casuale. Inoltre non aveva grosse armi tecniche, però ti sfiancava con la sua tenacia”. Secondo il tecnico argentino, oggi ha tra le mani un animale da competizione. “Serve meglio, è più forte, ama comandare lo scambio, è un giocatore completo. Ma il suo punto di forza è la preparazione atletica: di lui colpisce la resistenza. È in grado di giocare 4 ore con la stessa intensità, senza mai calare. Gli altri possono fare altrettanto, ma dopo 2 ore calano. Lui no. E lo può fare tutti i giorni”. Una delle sue più belle vittorie risale allo Us Open 2020, quando rimontò due set di svantaggio a Diego Schwartzman. I due si ritroveranno oggi a Indian Wells. In palio c'è la semifinale, molti soldi, ma soprattutto 180 punti che lo porterebbero a ridosso di Felix Auger Aliassime e non troppo distante da Jannik Sinner. Se anche non dovesse farcela, il suo 2021 rimane clamoroso. Aveva iniziato da numero 74 ATP, ma con la sua testardaggine sta firmando un'impresa eccezionale. “Gli obiettivi sono cambiati – diceva Lugones in estate – ma il principale rimane il miglioramento: vogliamo che Cameron diventi un giocatore sempre più forte. Certo, adesso non ci basta più vincere 1-2 partite a torneo. A inizio anno puntavamo ai top-30 ATP. Dovesse farcela, l'anno prossimo saranno i top-20, poi i top-10 e magari anche il numero 1”.

Sembra incredibile, ma – al di là della Race – potrebbe chiudere l'anno tra i primi dieci. Eppure continua ad essere sottovalutato, forse perché non sbraita ad ogni colpo, forse perché non rilascia dichiarazioni di fuoco, forse perché le sue pagine social parlano solo e soltanto di tennis. Tuttavia si sta facendo conoscere a suon di risultati grazie alla sua storia di orgoglio e tenacia. Ma forse nemmeno lui sperava di arrivare così in alto. Difetti: secondo Lugones è stato un po' pigro nell'imparare lo spagnolo, nonostante i due trascorrano molto insieme e tempo fa lo portò in Argentina per effettuare la preparazione invernale con Del Potro, Mayer, Zeballos e lo stesso Schwartzman. Fatti veniali, anche se in Nuova Zelanda non gli hanno perdonato del tutto la scelta di giocare per la Gran Bretagna. In fondo ha iniziato a giocare ad Auckland ed è con loro che si è fatto conoscere nel circuito giovanile. Il suo coach in età giovanile era l'ex pro James Greenhalgh. “Mi ha insegnato ad amare il tennis e ha formato la mia tecnica”, ma poi le sirene britanniche hanno avuto la meglio. Nel 2019 è arrivato in finale ad Auckland: qualcuno tifava per lui, qualcun altro no, un giornale lo ha persino definito The one that got away, il fuggitivo. Forse è vero, forse no. Di certo la sua fuga lo sta portando tra i migliori al mondo. “È molto difficile essere un tennista vivendo in Nuova Zelanda” si è giustificato. Oggi è dura dargli torto.