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US OPEN

Molcan e van de Zandschulp, quel dettaglio tra inferno e paradiso

Si dice spesso che i giocatori di secondo piano abbiano un livello degno dei migliori. Le belle imprese di Alex Molcan e Botic van de Zandschulp confermano la teoria: in pochi giorni, sono passati dall'inferno al paradiso. E ci hanno fatto scoprire due belle storie.

Riccardo Bisti
2 settembre 2021

Prima dello Us Open, Alex Molcan aveva intascato circa 230.000 dollari in tutta la sua (faticosa) carriera. Botic van de Zandschulp si era fermato a 486.000. Comunque vadano i loro match di terzo turno, riceveranno un bonifico di 180.000 dollari. Può essere la svolta per due carriere diverse, ma con un punto in comune: anni di battaglie nel purgatorio del tennis, laddove ogni partita è una lotta per la sopravvivenza. Non è inutile retorica: è la verità. I montepremi dei tornei Challenger, (ex?) habitat naturale di Molcan e van de Zandschulp, serve a malapena a coprire le enormi spese di un professionista. Ed è un peccato, soprattutto perché il livello è straordinario. Come diceva Ivo Karlovic, la differenza tra il numero 50 e il numero 200 spesso risiede nei dettagli. Entrambi partiti dalle qualificazioni, lo slovacco e l'olandese hanno infilato cinque vittorie, una più bella dell'altra, e adesso sognano il paradiso della seconda settimana (che vorrebbe dire anche 265.000 dollari). Nel torneo che potrebbe dare il Grande Slam al tennista più ricco di tutti i tempi, le loro storie profumano di buono. Giocatori sconosciuti al grande pubblico, improvvisamente catapultati nella realtà mainstream.

Ed è bello che provengano da due realtà molto diverse. Molcan si era fatto notare lo scorso maggio, quando era arrivato in finale al torneo ATP di Belgrado, sfidando Novak Djokovic. “Da allora ho capito di poter battere buoni giocatori – racconta – prima magari giocavo un buon match, ma poi non ero costante. Adesso ho trovato continuità”. Prima di trasferirsi a New York ha vinto un Challenger a Liberec, piombando al numero 138 ATP. Nelle qualificazioni ha annullato due matchpoint a Gastao Elias, poi ha superato Cem Ilkel e ha infilato una bella impresa sulla stellina Brandon Nakashima, pompatissimo dagli americani. Successi che hanno fatto commuovere mamma Andrea, principale artefice della sua carriera. Quando Alex aveva 10 anni, i genitori si sono separati. Due anni dopo, intuendo le capacità del figlio, la madre (che fa la fisioterapista) si è trasferita a Bratislava dalla nativa Presov (“Era l'unico modo per potersi allenare a un buon livello”). Con loro c'era anche la sorellina di Alex, che all'epoca frequentava l'asilo. “Mia madre lavorava dalle 6 alle 16, io mi allenavo tutto il giorno e mia sorella andava all'asilo. Non sempre mia madre poteva andarla a prendere, dunque spesso andavo io”.

ASICS ROMA
"Prima di un match guardo il tatuaggio con la tigre perché so che devo combattere, poi osservo quello di Buddha e mi ricordo che devo pensare e riflettere"
Alex Molcan

Pochissimi immaginavano che Axel Molcan avrebbe potuto battere Brandon Nakashima

Quando Alex aveva 15 anni, la madre è tornata a Presov (lasciandolo ospite presso una famiglia), poi è tornata un anno e mezzo dopo salvo poi lasciarlo alla sua vita quando è diventato maggiorenne. “Da allora vivo con mio fratello e la mia fidanzata – dice Molcan, che non ne dimentica i sacrifici – a un certo punto siamo rimasti al verde, lei ha sacrificato tutto per me e adesso sono riuscito a cambiare la sua vita: è la cosa di cui sono più orgoglioso”.Poco dopo aver compiuto 18 anni, si è fatto tatuare la data di nascita della madre. Un gesto semplice ma dall'enorme valore simbolico, così come tutti gli altri tatuaggi che stanno decorando il suo corpo. Si è fatto tatuare un po' di tutto: una tigre, un tempio, un fiore di loto, Buddha e Perseo. “Ognuno di loro ha un significato, sono affascinato da diverse culture – racconta – e mi servono anche in campo: prima di un match guardo la tigre perché so che devo combattere, poi osservo Buddha e mi ricordo che devo pensare e riflettere. Rappresentano una motivazione”. Classe 1997, ha avuto una buona carriera junior. È stato top-20, ma la transizione verso il professionismo è stata complicata da alcuni problemi fisici: spalla e schiena non lo hanno lasciato in pace, poi si è operato al polso e una volta si è procurato uno strappo addominale per aver calciato scherzosamente una pallina fuori dal campo. Mille ostacoli che però gli sono serviti a New York, sia nelle qualificazioni che nel surreale match contro Nakashima. Adesso sognare non costa nulla, a partire dal terzo turno contro Diego Schwartzman, un altro che ha conosciuto il senso della povertà.

Al contrario, van de Zandschulp viene da un Paese più ricco. L'Olanda ha una federazione piuttosto florida, peraltro con un altissimo numero di tesserati in rapporto alla popolazione. La KNLTB si può permettere di mettere un coach a disposizione dei migliori tennisti, ma questo vantaggio si è trasformato in un problema per il 26enne nato a Wageningen, che quest'anno ha sfiorato il “Grande Slam” delle qualificazioni. Le ha passate in Australia, a Parigi e a New York, mentre a Wimbledon si è fermato al terzo turno (ma è ugualmente entrato come lucky loser). I coach, dicevamo: poco prima del Roland Garros aveva iniziato a lavorare con Peter Lucassen. Risultato: qualificazioni passate e gran vittoria contro Hubert Hurkacz. Ottima alchimia, idea di inaugurare un progetto a lungo termine. Due giorni dopo il Roland Garros e poco prima di partire per Wimbledon, Lucassen ha scelto di abbandonare la KNLTB per accettare un incarico negli Stati Uniti. “Sapevo che aveva dei dubbi – racconta van de Zandschulp – ma mi è dispiaciuto che abbia deciso senza neanche consultarmi. Posso capire la sua scelta, ma è stato deludente. Forse dovrei cercarmi un coach fuori dalla federazione”.

La stretta di mano tra Botic van de Zandschulp e Casper Ruud

Le fasi salienti della bella impresa di Botic van de Zandschulp

Invece gli hanno trovato a tempo di record Michiel Schapers, discreto giocatore degli anni 80 (giunse tre volte al terzo turno a Wimbledon), assunto dalla KNLTB a inizio 2020. Il caso ha voluto che le cose andassero ancora meglio. Dopo Wimbledon ha giocato cinque Challenger di fila, cogliendo una finale, tre semifinali e un quarto. Venti partite in poco più di un mese e tanta stanchezza. Come se non bastasse, nelle qualificazioni di New York è sempre andato al terzo set, peraltro dopo aver perso il primo. E contro Enzo Couacaud è stato a un passo dalla sconfitta. Come se non bastasse, ha lottato cinque set per battere Carlos Taberner al primo turno. E oggi è il primo olandese al terzo turno di uno Slam dopo otto anni: l'ultimo era stato Igor Sijsling a Wimbledon 2013. “È una bella sensazione, ma non sono così sorpreso – racconta van de Zandschulp dopo la clamorosa vittoria contro Casper Ruud – sin dall'inizio ero a mio agio negli scambi, e il servizio mi dava qualche punto gratis.

Durante lo stop per pioggia, ho detto al mio coach che se avessi servito ancora un po' meglio avrei potuto vincere”. Detto, fatto. Paradossalmente, la vittoria più prestigiosa è stata anche la meno difficile. È un tipo di poche parole, dai sorrisi appena accennati e nessuna propensione all'esaltazione. “Ma non sono sempre stato così, anzi, in passato ero piuttosto indisciplinato, negativo con le parole e con i gesti. So che i miei risultati hanno avuto una certa risonanza in Olanda: bello, ma non è il motivo per cui gioco a tennis. Ma qui a New York c'è un grande clima, che ha contribuito a vincere la stanchezza”. Ne avrà un gran bisogno al terzo turno, in un match più che abbordabile contro Facundo Bagnis, numero 80 ATP, anche lui per la prima volta a un terzo turno Slam. “Partita difficile, perchè ormai tutti i giocatori esprimono un livello molto simile”. Opinione condivisa da molti, anche se i montepremi dicono altro. Per una volta, due carneadi sorrideranno anche grazie al portafoglio.