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LA STORIA

Il business degli sponsor usa e getta

Vi sarete domandati come mai il marchio di cosmetici Guinot-Mary Cohr compaia sugli abiti di tantissimi giocatori durante gli Slam. È una strategia di marketing: con poche migliaia di dollari, siglano accordi temporanei con i tennisti impegnati nei campi principali. Esposizione globale a basso costo: poi capita che qualche testimonial vinca il torneo...

Riccardo Bisti
16 dicembre 2021

Oh, no, mi tocca giocare contro Djokovic-Federer-Nadal”. Mettetevi nei panni di un giocatore di medio livello, condannato dal sorteggio di un torneo del Grande Slam. Si è allenato duramente, punta a un buon risultato, ma l'urna gli ha dato in dote un match proibitivo. Magari vivrà una bella esperienza, indimenticabile, ma va incontro a sconfitta quasi certa. Da qualche anno, tuttavia, questa categoria di giocatori può consolarsi con uno... zuccherino. Se non vi è ancora capitato, fateci caso quando vedrete nelle maniche e nelle divise degli underdog il patch del marchio francese Guinot (azienda di prodotti cosmetici) e della sua sottomarca Mary-Cohr. Sistema inedito per fare business, in voga da parecchi anni e molto efficace. Con la collaborazione di IMG, Guinot contatta i tennisti che il giorno dopo scenderanno in campo su un campo importante, contro un top-player, e stipula un accordo di sponsorizzazione usa e getta. Il giocatore indossa il patch, viene pagato e finisce lì. Semplice ma geniale. Il tennista (solitamente di seconda fascia) incassa un premio extra, mentre l'azienda si garantisce visibilità globale a basso costo, prendendosi decine di inquadrature e affiancando il proprio marchio a sponsor decisamente prestigiosi. Sebbene non sia l'unica azienda a farlo, Guinot ha standardizzato questo modo di fare.

Presente nel tennis da decenni, ha ideato la strategia nel 2008 e si avvale dell'intermediazione di IMG: quando viene stabilito l'ordine di gioco del giorno dopo, IMG contatta i manager dei giocatori impegnati sui campi principali, dunque con la certezza di avere visibilità globale. Una volta individuati quelli con spazi liberi sulla divisa da gioco, iniziano le trattative-lampo. Si spiega così l'impressionante numero di giocatori che indossano la toppa rossa Guinot e quella verde Mary-Cohr. Secondo le indiscrezioni raccolte qualche anno fa dal New York Times, ai giocatori vengono offerte poche migliaia di dollari per ciascun patch (che sono prefabbricati e uguali per tutti). L'importo può aumentare a seconda della classifica del giocatore e al turno. Insomma, un ottavo di finale con il numero 35 costa di più rispetto a un primo turno con il numero 150, a prescindere dall'avversario. Difficilmente si superano i 10.000 dollari a partita, anche se è capitato che qualche giocatore Guinot-Mary Cohr vincesse addirittura il torneo. O meglio, giocatrice, visto che è accaduto soltanto tra le donne. Svetlana Kuznetsova al Roland Garros 2009, Samantha Stosur allo Us Open 2011 e Marion Bartoli a Wimbledon 2013. Sembrava che il brand francese non potesse completare il suo personale Grande Slam, poi è arrivato l'incredibile Australian Open 2020, in cui Sofia Kenin ha indossato il doppio brand fino alla vittoria.

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«Credo che la percentuale di vittorie di chi indossa questi patch sia molto bassa. Ma quando mi offrirono l'accordo, pensai che sarebbe stato un bel bonus per una partita che non avrei mai potuto vincere» 
Tim Smyczek

Nel 2015, Tim Smyczek diede inaspettata visibilità a Guinot. Peccato che nel quinto set abbia finito le magliette "brandizzate" e giocato gli ultimi game con una polo senza loghi

Nelle centinaia di pagine che compongono i rulebook ATP e WTA, è regolamentata anche la presenza degli sponsor sugli abiti dei giocatori, poi le regole sono ancora più rigide nei tornei del Grande Slam (gli unici in cui Guinot adotta il business), laddove è consentito un massimo di due patch, la cui grandezza non può superare i 19,5 centimetri quadrati: se il giocatore ha spazio per un solo logo, gli viene consegnato quello Guinot. Se invece può indossarne due, si aggiunge Mary Cohr. L'applicazione è affidata agli stessi giocatori, anche se qualcuno si affida al sarto del torneo. L'aneddotica è densa di episodi, ma il più divertente riguarda il match tra Rafael Nadal e Tim Smyczek all'Australian Open 2015: l'americano era n.112 ATP e siglò l'accordo con Guinot, portando le sue magliette in cucitura. Ma soltanto cinque delle otto furono brandizzate. Incredibilmente, Smyczek portò Nadal al quinto (il match è ricordato per la correttezza dell'americano, che consentì a Nadal di rigiocare la prima di servizio nell'ultimo game), ma il caldo e l'umidità australiana lo portò a cambiare spesso la maglietta. Risultato: ha giocato le fasi finali con una t-shirt senza logo. Non è dato sapere come l'hanno presa i capi di Guinot: probabilmente bene, visto che il loro marchio era rimasto in mondovisione per oltre tre ore. Altro che i costi esorbitanti degli spot durante i cambi di campo... “In tutta onestà, credo che la percentuale di vittorie di chi indossa questi patch sia molto bassa, credo che sia il brand meno vincente di sempre – disse Smyczek – ma quando mi offrirono l'accordo pensai che sarebbe stato un bel bonus per una partita che non avrei mai potuto vincere”.

Le aziende che investono sul tennis, al contrario, preferiscono contratti a lungo termine e il coinvolgimento diretto dei giocatori. Ci sono decine di esempi, soprattutto tra i top-player. Ad alti livelli, il tennis è uno sport in grado di attirare marchi di enorme prestigio. Prendiamo Porsche, produttore di auto di lusso. Nel medesimo articolo del NY Times c'era la testimonianza di Viktoria Wohlrapp, portavoce di Porsche Tennis, storico partner di Maria Sharapova nonché title sponsor del torneo WTA di Stoccarda (laddove la russa non mancava mai, e che sancì il suo rientro dopo la squalifica). Oltre alla russa, hanno un accordo – ancora in essere – con Angelique Kerber. Negli anni, Porsche ha scoperto che buona parte del valore delle sponsorizzazioni deriva dai match giocati nei tornei del Grande Slam. “Per questo ammiro l'approccio di Guinot. Ottenere visibilità senza un impegno a lungo termine è un'ottima idea dal punto di vista del marketing - ha detto – perché a volte i patch sono rischiosi, visto che paghi per un'esposizione che potresti non avere se il tennista non gioca bene”. Proprio il rischio evitato dal Metodo Guinot. “Tuttavia, una strategia del genere non sarebbe appropriata per Porsche: più che l'esposizione, a noi interessa enfatizzare la partnership tra il marchio e l'atleta”. Nascono così campagne pubblicitarie, spot, eventi ad-hoc e situazioni che però sono riservate ai grandi nomi e alle grandi aziende.

Robin Soderling indossava la toppa Guinot durante lo storico match contro Rafa Nadal al Roland Garros 2009

Grazie a Marion Bartoli, Guinot-Mary Cohr ha addirittura "vinto" Wimbledon

Per quanto riguarda i patch sulle divise, c'è un altro problema: non tutte le aziende di abbigliamento li autorizzano. Nike, per esempio, proibisce che le proprie divise siano sporcate da altri marchi. Hanno fatto un'eccezione per Na Li, poi per qualche altro tennista cinese. A volte, l'esclusiva può essere modellata su un singolo giocatore. Un buon esempio è Caroline Wozniacki, quando rinegoziò l'accordo con Adidas per indossare gli abiti griffati Stella McCartney. Accettò di non indossare altri marchi e ottenne un bonus per questa disponibilità. “Credo che così il completo sia più bello, però deve anche esserci un senso finanziario – disse la danese – se però riesci a evitare i patch extra e ad avere una logica economica, è la soluzione ideale”. Ci sono poi giocatori che ritengono gli accordi-lampo come qualcosa di invalidante. Svetlanza Kuznetsova ha addirittura vinto uno Slam con una toppa Guinot, ma qualche anno dopo ha ritenuto di aver acquisito un valore commerciale maggiore. “Adesso valgo di più, dunque accetterei soltanto offerte a lungo termine. Anche se ho tutto il rispetto per chi li indossa, è un guadagno e non ci sono effetti collaterali”.

Chissà se oggi ha cambiato nuovamente idea: ferma da Wimbledon, attualmente è numero 109 WTA e non giocherà nemmeno le qualificazioni all'Australian Open. Dovesse rimettere piede su un campo centrale, vedremo quali saranno state le sue decisioni. Uno che ha sempre rifiutato le offerte usa e getta è stato Mardy Fish, ex top-10 e attuale capitano della Davis americana. “Ogni volta che appoggio un'azienda voglio sapere chi è, cosa c'è dietro, cosa rappresenta. Volevo che tutto tornasse, che in un certo facesse parte del mio team. Ma credo di essere stato un caso raro, perché si tratta di soldi molto facili”. Altri hanno un pensiero molto più opportunistico. Nel 2017, Sam Querrey ha indossato il patch Guinot nei quarti di Wimbledon contro Andy Murray, poi in semifinale aveva quello di Wheels Up, compagnia di aviazione privata che gli consente anche di utilizzare i suoi jet. Non sappiamo se fosse Wheels Up il volo privato con cui lo scorso anno fuggì da San Pietroburgo dopo la positività al COVID. Uno dei tanti episodi al limite di questa pandemia. “Accetto le offerte di chi paga di più – disse il californiano – non mi interessa il nome dell'azienda: indosso il patch e vengo pagato, mi basta questo. Non so neanche cosa facciano Guinot e Mary Cohr”. Ecco, magari un limite potrebbe esserci...